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Il vincolo dell'origine nella letteratura austriaca del secondo novecento : Il caso Thomas Bernhard
(2009)
La letteratura austriaca del secondo Novecento apre i battenti sotto il segno della ricerca della propria identità culturale, distinta da quella tedesca – alla quale era stata omologata durante il Terzo Reich – e vincolata, ma senza nostalgia, alle coordinate tracciate dalla "età dell’oro" mitteleuropea. È su queste posizioni che si attestano le opere dei cosiddetti "superstiti" della grande tradizione austriaca: Ingeborg Bachmann, Thomas Bernhard, Peter Handke. La loro rilevante produzione, insieme a quella di altri affermati autori – ha avuto da un lato, il merito di restituire l’Austria alla grande letteratura mondiale, dall’altro, di inaugurare la vivace stagione contemporanea, ancora in pieno fermento.
Tra le parole che si sono prestate agli usi più difformi e ambigui c'è sicuramente il concetto di progresso. Il motivo del "Fortschritt", che si è affermato nel XVIII secolo in contrapposizione alla visione ciclica propria dell'antichità, era associato all'idea di un incremento della produttività e alla prospettiva di uno sviluppo della storia umana. Questa deinizione positiva del progresso, per la quale al "dopo" corrisponde automaticamente il "meglio", sottende una concezione lineare della storia e rimanda a un modello tipicamente costruttivo. Ma il concetto di Fortschritt ha avuto una vita tutt'altro che pacifica: infatti ben presto si è affacciata prepotentemente sulla scena una visione ben diversa del progresso, che ha messo in crisi l'alone di gloria che sembrava accompagnarlo in dai suoi natali. In pochi luoghi è possibile misurare la crisi di questa gloriosa tradizione come nel capitalismo, dove l'ideologia dell'incremento quantitativo non ha portato ad alcun passo in avanti dal punto di vista qualitativo e in senso umano, ma piuttosto si è risolta in problemi globali e in dinamiche distruttive. Di fronte all'attestarsi di un progresso che è manifestazione di negatività, occorre mettere in guardia da un uso acritico della categoria del Fortschritt. È quanto sostiene Bloch in una conferenza tenuta nel 1955 e pubblicata l'anno successive con il titolo "Differenzierungen im Begriff Fortschritt". Come se non bastasse, sul fronte opposto c'è un'altra deriva da scongiurare: il problema che insorge sull'altro versante è quello di un totale rinnegamento del progresso. Si tratta di un errore teorico in cui molti sono caduti, e che segnala la necessità di una rilessione approfondita su questo tema. L'urgenza di interrogarsi sul "Was ist Fortschritt?" non deriva, per Bloch, dal fatto che il termine progresso sia di per sé poco chiaro e manifesto, ma semmai dal cattivo uso che ne è stato fatto Il primo passo da fare, secondo il programma blochiano di un recupero critico del "progresso", è quello di arginare gli intralci. Sono quei percorsi che sembrano condurre al Tiefenweg dell’Umano, e che invece si rivelano "vicoli ciechi" che non portano a nulla, o che sono costellati da botole che fanno ripiombare il viandante al punto di partenza. Da evitare sono inoltre quelle false piste che conducono in direzione contraria, nel senso opposto rispetto alla dimensione della Selbstbegegnung. Ciò che interessa a Bloch è denunciare le aporie contenute nel concetto stesso di "progresso", facendo afiorare quelle differenziazioni che lo rendono al contempo estremamente fragile ed ambiguo.
In un'intervista rilasciata in piena maturità a ricordo degli anni di gioventù, Bloch concentra la sua attenzione sulle rilessioni antimilitaristiche contenute in 'Spirito dell'utopia' (1918 e 1923). soprattutto riformula quella questione che – proposta con veemenza nella Introduzione (dal titolo Intenzione) del suo libro – attraversa come un ilo sotterraneo tutta la sua produzione giovanile: "dove deve essere rintracciata l'origine di quella cecità che ha portato al crimine della guerra? perché il popolo dei poeti e dei pensatori ha imboccato il vicolo cieco del primo conlitto mondiale?".
La vis polemica di Bloch nei confronti dello storico colpo di tuono emerge dai passi iniziali di 'Spirito dell’utopia', uno studio che – come segnala l'"avvertenza" del 1936 – è stato "sviscerato e realizzato di note contro la guerra". È soprattutto a un intenso brano della "Intenzione" che bloch affida la sua denuncia della barbarie della prima conflagrazione bellica, inquadrandola in uno 'Zeitgeist' di generale immiserimento economico e morale.
As an exemplum of that kind of “modern” art, in terms of Adorno, Kafka’s work is marked not only by its strictly “realistic” character, but also by the unavoidable critical and testimonial value of that realism. According to this perspective, both in Adorno and in Benjamin the testimonial aspect of Kafkian writing – that is of a writing as “dialectical image”, as memory of the unfullfilled possibility – it’s all the same not with its symbolical or “epiphanical” aspect but instead with its “allegorical” one.
Starting from Warburg, the distinguishing mark of an image, considered as identity-difference of visible and invisible, is its offering itself as an implementation of a temporality, and at the same time of a memory that is immanent in the sensible structure of the image. It’s what we find both in Benjamin and in Adorno: in both cases, it is just because the image is marked by a “internal time” that it is able to have a critical function towards reality, and at the same time an utopian character that is all the same with its non-renounceable testimonial task.
This study points out the methodological centrality assumed by the notion of “physiognomy”, both in Benjamin and in Adorno, namely the idea that the forms of the works of art, and generally those of the visual phenomena, are direct “expression”, in a micro-monadological way, of an historical-social sense, not otherwise attainable. On the one hand Benjamin’s physiognomy shows a particular interpretative “openness” to its objects, on the other that of Adorno remains subjected to an epistemological model of “totality”, from the Hegelian-Marxian tradition, which risks compromising the hermeneutic efficacy of its own original philosophical approach.
Raoul Sage
(2010)