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Temporal regularity allows predicting the temporal locus of future information thereby potentially facilitating cognitive processing. We applied event-related brain potentials (ERPs) to investigate how temporal regularity impacts pre-attentive and attentive processing of deviance in the auditory modality. Participants listened to sequences of sinusoidal tones differing exclusively in pitch. The inter-stimulus interval (ISI) in these sequences was manipulated to convey either isochronous or random temporal structure. In the pre-attentive session, deviance processing was unaffected by the regularity manipulation as evidenced in three event-related-potentials (ERPs): mismatch negativity (MMN), P3a, and reorienting negativity (RON). In the attentive session, the P3b was smaller for deviant tones embedded in irregular temporal structure, while the N2b component remained unaffected. These findings confirm that temporal regularity can reinforce cognitive mechanisms associated with the attentive processing of deviance. Furthermore, they provide evidence for the dynamic allocation of attention in time and dissociable pre-attentive and attention-dependent temporal processing mechanisms.
Il pensiero di Günther Stern/Anders (1902-1992) non è mai stato al centro del dibattito filosofico e questo nonostante le sue teorie si siano spesso rivelate tragicamente attuali. C'è da dire che lo stesso Anders ha fatto di tutto per collocarsi in una posizione eccentrica, rifiutando con sdegno e indignazione i compromessi della carriera accademica, prendendo le distanze da alcuni autori che pure rientrano nel suo stesso orizzonte teoretico (Adorno, Arendt, Bloch e Lukács, ad esempio), ma soprattutto sostenendo alcune posizioni estreme e radicali, provocatorie e intransigenti. Un filosofo della esagerazione, potrebbe essere definito, un pensatore che ha programmaticamente eletto il concetto della Übertreibungskunst a sigla del suo metodo speculativo. Era infatti sua ferma convinzione che occorresse deformare per constatare (o anche contestare), per scuotere l'indifferenza di una società dominata e schiacciata dalla tecnica. In un mondo completamente sordo – spiega Anders – si fa necessario urlare le proprie considerazioni affinché arrive all'orecchio di qualcuno almeno una loro flebile eco. Una strategia della esagerazione che ha sortito come effetto quello di fare di lui una "Cassandra della filosofia", un "creatore di panico" o, nel migliore di casi, un pensatore scomodo, che conveniva tenere da parte, confinandolo nella periferie, o magari saccheggiare di nascosto, piuttosto che citare esplicitamente. La delusione per l'ostinata sordità del mondo nei confronti dei suoi ripetuti e disperati appelli ha segnato le sue ultime riflessioni, declinandole in toni aggressivi. Intollerante nei confronti di qualunque compromesso ipocrita, la "filosofia della disperazione" andersiana si è arroccata su toni sempre più aspri e ostinati, intransigenti fino al punto di legittimare persino la violenza con la necessità dell'autodifesa. Non stupisce il fatto che, alla fine della sua esistenza, al suo seguito non ci fosse che uno sparuto gruppo di fans, estimatori che Anders non ha mancato di scoraggiare e deludere, con l'assunzione di posizioni sempre più radicali.
In tutte le sue diverse declinazioni, il dissenso nei riguardi della propria patria costituisce un motivo centrale e ricorrente nella cultura austriaca del Novecento. Come in una sorta di contagio il carattere distruttivo, soprattutto nel Secondo dopoguerra, si è diffuso – e continua a diffondersi – ad ampio raggio: esempi emblematici sono offerti da Peter Handke, con i suoi "insulti all'Austria" urlati dall'esilio francese, dalla prosa sofferta di Ingeborg Bachmann, che ha riparato a Roma, dalla scrittura caustica del Premio Nobel Elfriede Jelinek, o da quella estrema di Werner Schwab. Ma anche da autori meno noti, come Anna Mitgutsch, che, dagli Stati Uniti, non manca di esternare la sua avversione nei confronti del paese d'origine, o dai toni aspri dello scrittore Robert Menasse. Lo steso vale per il campo cinematografi co, con il cinema a tinte forti di Ulrich Seidl. Una passion durevole, quella degli austriaci per i toni antipatriottici, una tradizione che vanta come anticipatore il sacro nome del grande polemista Karl Kraus, o forse, ancor prima, affonda le sue radici nel teatro di Raimund Nestroy. Se l'ostilità per l'Austria sembra un Leitmotiv della grande retorica austriaca, Thomas Bernhard (1931-1989) può essere a giusto titolo considerate non solo come il legittimo erede di questa grande tradizione, ma anche come il suo massimo rappresentante. Ereditare signifi ca infatti fare i conti in modo cinico e rischioso con l'orizzonte vitale e culturale a cui si appartiene e che ci appartiene. Autore diffi cile, maniacale, irriverente ed eccessivo, Bernhard si è imposto all'attenzione del grande pubblico per la sua appassionata denuncia dell'universo austriaco, e della sua atmosfera piccolo-borghese, conformista, ottusamente fi loclericale. I suoi frequenti interventi pubblici – ora raccolti e pubblicati con il titolo Meine Preise – presentano come unico obiettivo la provocazione, e di fatto hanno suscitato scandali, polemiche. Un esempio per tutti è il discorso tenuto nel 1967 per il Conferimento del "Premio Nazionale Austriaco per la Letteratura": "Noi siamo austriaci, siamo apatici, siamo la vita intesa come ignobile disinteresse nei confronti della vita, siamo, nel processo naturale, la megalomania intesa come futuro". Un testo scritto con un inchiostro che è succo di nervi. Ma questa è solo una delle tante puntate che vedono Bernhard in polemica con i suoi connazionali, e che hanno contribuito a designarlo come un Nestbeschmutzer. È questa una visione decisamente riduttiva. Lo humour nero bernhardiano, che di certo ci ha regalato pagine irresistibili, nasce da un sentimento di amore e odio nei confronti dell'Austria. Per dirla in altri termini, è sintomo non di una nevrastenica insofferenza (di cui poco ci importerebbe), quanto piuttosto di una Unheimlichkeit, di un sofferto legame con l'origine. Su questo punto, per ora solo accennato, avrò occasione di tornare.
Non è certo un caso se da quasi un secolo si parla di Austria infelix, per designare una cultura austriaca intrisa di dolore, o forse ancor meglio, per dirla con Jean Améry, di un Morbus Austriacus che si è propagato come in una forma di contagio. Non è forse ancora un caso se Winfried Georg (Max) Sebald ha intitolato la sua opera saggistica del 1985 – in cui ripercorre alcune delle tappe salienti dell'itinerario letterario austriaco come stazioni del dolore – "La descrizione dell'infelicità" ("Die Beschreibung des Unglücks"). Seguendo questa diagnosi sebaldiana, la causa della patologia dell'infelicità austriaca del XX secolo va ricercata nel sentimento, ambivalente e sofferto, di avversione e di ricerca della patria. Gli eventi traumatici del Novecento, e la consapevolezza delle colpe dell'Austria nel suo consenso al nazismo, hanno segnato in senso problematico l'identità culturale di questo paese, e con essa anche la cognizione del dolore. Oltre a Jean Améry, che ho sopra ricordato, penso ad autori del calibro di Thomas Bernhard, di Ingeborg Bachmann, di Peter Handke, ma anche alla poetessa di origine contadine Christine Lavant. Se c'è un tema di fondo che attraversa, come un filo sotterraneo, questo tracciato letterario è l'impotenza di fronte al dolore, e al contempo l'assunzione del pathos come elemento di rottura delle forme. La sofferenza informa di sé l'esistenza, e la deforma. E pur tuttavia, questa deformazione si attua secondo modalità diverse: il dolore fa urlare, ma anche ammutolisce, fa delirare o irrigidire, straripa dalle forme e pietrifica, se esige di essere espresso, cozza contro i limiti del linguaggio.
Nessuno scrittore più di Franz Kafka si è inoltrato in quel "mondo inconoscibile" che è la zona di transizione tra l'umano e il bestiale, tra la cosiddetta natura e la cosiddetta cultura, tra la inconsapevolezza e la consapevolezza. L'intera opera kafkiana si muove sotto il segno del passaggio tra animalità e umanità, in una sorta di "assalto al limite". Basterebbe ricordare quel capolavoro che è il racconto La metamorfosi (Die Verwandlung), del 1912, per sottolineare la centralità di questo motivo. Ma, già se si dà un'occhiata ai titoli dei racconti più brevi, come La tana (Der Bau, 1923), Giuseppina la cantante, ossia il popolo dei topi (Josefi ne, die Sängerin oder das Volk der Mäuse, 1924), Indagini di un cane (Forschungen eines Hundes, 1922), ci si rende conto di quanti "quasi animali" affollano la letteratura kafkiana. Le Erzählungen annoverano una nutrita popolazione di fi gure bestiali: insetti, cani, topi, martore, scarafaggi, pantere, avvoltoi, cavalli, talpe, cani, gatti, cornacchie, cammelli e scimmie. Niente di nuovo se si pensa alla favola classica, da Esopo o Ovidio a La Fontaine, che pullula di metafore feriomorfe. E tuttavia – come ha giustamente osservato Günther Stern/Anders nella sua magistrale interpretazione di Kafka pubblicata nel 1951 –, sussiste rispetto alla visione kafkiana una sostanziale differenza. In ambito classico lo scambio tra uomo e animale aveva una chiara funzione didascalica: quella di dimostrare come gli uomini siano animali.
In meinem Vortrag geht es um Gastfreundschaft als kulturologisches Konzept. Mein Fokus wird sich auf die russische und sowjetische Konzeptualisierung der einer speziellen Art der Gastfreundschaft richten, bei der die für die Beziehung "Gastgeber - Gast" konstitutive "Fremdheit" durch eine Differenz im Lebensstil und nicht durch die Zugehörigkeit / Nichtzugehörigkeit zu Familie, sozialer Gruppe, Staat oder Ethnie definiert ist. Ich meine das Phänomen des "stranničestvo", d.h. einer für die russische Kultur spezifischen Form des wandernden, wohnsitzlosen Lebens, welches christlich-religiöse Ursprünge im Kontext des Altgläubigentums hatte, aber im Lauf der russischen Kulturgeschichte auch zahlreiche sozial motivierte Varianten herausgebildet hat. In der russischen nationalen Kulturgeschichtsschreibung des späteren 19. Jh.s wurde diesem Phänomen eine für den Verlauf der Nationalgeschichte, für die Herausbildung einer nationalen Identität und für die Konstituierung des russischen "Volkes" als Akteur der Nationalgeschichte zentrale Bedeutung zugeschrieben. Ich möchte der Frage nachgehen, welche Art von Gastfreundschaft im Zusammenhang dieser nationalen Konzeptualisierungen des "stranničestvo" entworfen wurde, welche Funktion dieser Gastfreundschaft als Komplement oder sogar Element dieses Verständnisses von "stranničestvo" zugeschrieben wurde und welche Bedeutung dies im Kontext der diskursiven Konzeptualisierung Russlands als Imperium hatte.
The concept of the “magic circle” (Johan Huizinga) defines the stage and the specific performative conditions for magic to work. This concept which was applied by Huizinga to spaces such as the courtroom, the church or the theatre is extended in this essay to the page of the literary text. It is argued that something of the age-old magic of oral poetry is preserved in contemporary German memory fiction that stages an encounter with dead family members. In novels by Peter Härtling (Nachgetragene Liebe) and Uwe Timm (Am Beispiel meines Bruders) a repressed past is emotionally revisited and at the same time exposed to new reflection in the light of hindsight. The therapeutic setting of “family constellation” is introduced as another manifestation of the magic circle in our contemporary world in which latent traumas are acted out and worked through in a cathartic process.
This paper examines how questions, both Wh-questions and yes-no questions, are phrased in Chimwiini, a Bantu language spoken in southern Somalia. Questions do not require any special phrasing principles, but Wh-questions do provide much evidence in support of the principle Align-Foc R, which requires that focused or emphasized words/constituents be located at the end of a phonological phrase. Question words and enclitics are always focused and thus appear at the end of a phrase. Although questions do not require any new phrasing principles, they do display complex accentual (tonal) behavior. This paper attempts to provide an account of these accentual phenomena.
This paper presents a preliminary survey of the positions and prosodies associated with Wh-questions in two Bantu languages spoken in Malawi. The paper shows that the two languages are similar in requiring focused subjects to be clefted. Both also require 'which' questions and 'because of what' questions to be clefted or fronted. However, for other non-subjects Tumbuka rather uniformly imposes an IAV (immediately after the verb) requirement, while Chewa does not. In both languages, we found a strong tendency for there to be a prosodic phrase break following the Wh-word. In Tumbuka, this break follows from the general phrasing algorithm of the language, while in Chewa, I propose that the break can be best understood as following from the inherent prominence of Wh-words.
This paper sketches the morphosyntactic and prosodic properties of questions in Fipa, discussing three varieties: Milanzi, Nkansi and Kwa. The general word order and morphological patterns relevant to question structures are outlined and different types of wh-question constructions are described and tentatively linked to the prosodic features of Fipa questions.