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L'Impero romano d'Occidente e i Barbari : le invasioni e la disfatta economica del V secolo d.C.
(2011)
Gli approfonditi studi che si sono svolti in questi ultimi decenni sul tardo antico hanno
consentito di precisare le caratteristiche del periodo e di generare un acceso dibattito
che, ancora oggi, dilania il mondo accademico che risulta essere smembrato in due
scuole di pensiero: continuisti e catastrofisti. I primi, a seguito della rivoluzione
copernicana di Peter Brown, considerano il tardo antico come un’età di transizione
che segna il graduale passaggio dall’epoca antica a quella medievale. I secondi, al
contrario, giudicano il periodo come un’epoca di cesura e di rottura con il mondo antico.
Appare evidente che la diversa valutazione che si da all’epoca ha portato ad
una distinta considerazione delle invasioni barbariche. Secondo i continuisti, infatti, le
popolazioni che attraversano il confine germanico non provocano alterazioni nella
struttura economica e politica dell’impero romano d’Occidente e affermano che i
barbari si sono semplicemente “accomodati” nel territorio di Roma. Secondo i
catastrofisti, invece, gli invasori hanno causato il declino economico e sociale di
Roma portandola verso la caduta sancita nel 476 d.C.
La sterile controversia, che ancora oggi è attiva nel mondo accademico, non ha
consentito di precisare come i Barbari abbiano alterato il sistema economico romano
poiché le due fazioni non hanno analizzato come gli “invasori” si siano inseriti
all’interno di un apparato consolidato ma fragile.
Il modello che qui si propone è sostanzialmente diverso da quello tradizionale:
non si parlerà di continuità o di rottura ma di una alterazione sostanziale che porterà
alla nascita di un nuovo mondo economico fondato su nuove basi.
Per raggiungere questo scopo si sono analizzate sia le fonti letterarie che
quelle archeologiche in maniera paritetica: nessuna delle due ha prevalso sull’altra in
modo da non far risaltare ne l’idea della continuità ne quella della rottura.
Rezension zu: Penelope Goodman, The Roman City and its periphery: from Rome to Gaul (London 2007)
(2011)
Il pensiero di Günther Stern/Anders (1902-1992) non è mai stato al centro del dibattito filosofico e questo nonostante le sue teorie si siano spesso rivelate tragicamente attuali. C'è da dire che lo stesso Anders ha fatto di tutto per collocarsi in una posizione eccentrica, rifiutando con sdegno e indignazione i compromessi della carriera accademica, prendendo le distanze da alcuni autori che pure rientrano nel suo stesso orizzonte teoretico (Adorno, Arendt, Bloch e Lukács, ad esempio), ma soprattutto sostenendo alcune posizioni estreme e radicali, provocatorie e intransigenti. Un filosofo della esagerazione, potrebbe essere definito, un pensatore che ha programmaticamente eletto il concetto della Übertreibungskunst a sigla del suo metodo speculativo. Era infatti sua ferma convinzione che occorresse deformare per constatare (o anche contestare), per scuotere l'indifferenza di una società dominata e schiacciata dalla tecnica. In un mondo completamente sordo – spiega Anders – si fa necessario urlare le proprie considerazioni affinché arrive all'orecchio di qualcuno almeno una loro flebile eco. Una strategia della esagerazione che ha sortito come effetto quello di fare di lui una "Cassandra della filosofia", un "creatore di panico" o, nel migliore di casi, un pensatore scomodo, che conveniva tenere da parte, confinandolo nella periferie, o magari saccheggiare di nascosto, piuttosto che citare esplicitamente. La delusione per l'ostinata sordità del mondo nei confronti dei suoi ripetuti e disperati appelli ha segnato le sue ultime riflessioni, declinandole in toni aggressivi. Intollerante nei confronti di qualunque compromesso ipocrita, la "filosofia della disperazione" andersiana si è arroccata su toni sempre più aspri e ostinati, intransigenti fino al punto di legittimare persino la violenza con la necessità dell'autodifesa. Non stupisce il fatto che, alla fine della sua esistenza, al suo seguito non ci fosse che uno sparuto gruppo di fans, estimatori che Anders non ha mancato di scoraggiare e deludere, con l'assunzione di posizioni sempre più radicali.
In tutte le sue diverse declinazioni, il dissenso nei riguardi della propria patria costituisce un motivo centrale e ricorrente nella cultura austriaca del Novecento. Come in una sorta di contagio il carattere distruttivo, soprattutto nel Secondo dopoguerra, si è diffuso – e continua a diffondersi – ad ampio raggio: esempi emblematici sono offerti da Peter Handke, con i suoi "insulti all'Austria" urlati dall'esilio francese, dalla prosa sofferta di Ingeborg Bachmann, che ha riparato a Roma, dalla scrittura caustica del Premio Nobel Elfriede Jelinek, o da quella estrema di Werner Schwab. Ma anche da autori meno noti, come Anna Mitgutsch, che, dagli Stati Uniti, non manca di esternare la sua avversione nei confronti del paese d'origine, o dai toni aspri dello scrittore Robert Menasse. Lo steso vale per il campo cinematografi co, con il cinema a tinte forti di Ulrich Seidl. Una passion durevole, quella degli austriaci per i toni antipatriottici, una tradizione che vanta come anticipatore il sacro nome del grande polemista Karl Kraus, o forse, ancor prima, affonda le sue radici nel teatro di Raimund Nestroy. Se l'ostilità per l'Austria sembra un Leitmotiv della grande retorica austriaca, Thomas Bernhard (1931-1989) può essere a giusto titolo considerate non solo come il legittimo erede di questa grande tradizione, ma anche come il suo massimo rappresentante. Ereditare signifi ca infatti fare i conti in modo cinico e rischioso con l'orizzonte vitale e culturale a cui si appartiene e che ci appartiene. Autore diffi cile, maniacale, irriverente ed eccessivo, Bernhard si è imposto all'attenzione del grande pubblico per la sua appassionata denuncia dell'universo austriaco, e della sua atmosfera piccolo-borghese, conformista, ottusamente fi loclericale. I suoi frequenti interventi pubblici – ora raccolti e pubblicati con il titolo Meine Preise – presentano come unico obiettivo la provocazione, e di fatto hanno suscitato scandali, polemiche. Un esempio per tutti è il discorso tenuto nel 1967 per il Conferimento del "Premio Nazionale Austriaco per la Letteratura": "Noi siamo austriaci, siamo apatici, siamo la vita intesa come ignobile disinteresse nei confronti della vita, siamo, nel processo naturale, la megalomania intesa come futuro". Un testo scritto con un inchiostro che è succo di nervi. Ma questa è solo una delle tante puntate che vedono Bernhard in polemica con i suoi connazionali, e che hanno contribuito a designarlo come un Nestbeschmutzer. È questa una visione decisamente riduttiva. Lo humour nero bernhardiano, che di certo ci ha regalato pagine irresistibili, nasce da un sentimento di amore e odio nei confronti dell'Austria. Per dirla in altri termini, è sintomo non di una nevrastenica insofferenza (di cui poco ci importerebbe), quanto piuttosto di una Unheimlichkeit, di un sofferto legame con l'origine. Su questo punto, per ora solo accennato, avrò occasione di tornare.
Non è certo un caso se da quasi un secolo si parla di Austria infelix, per designare una cultura austriaca intrisa di dolore, o forse ancor meglio, per dirla con Jean Améry, di un Morbus Austriacus che si è propagato come in una forma di contagio. Non è forse ancora un caso se Winfried Georg (Max) Sebald ha intitolato la sua opera saggistica del 1985 – in cui ripercorre alcune delle tappe salienti dell'itinerario letterario austriaco come stazioni del dolore – "La descrizione dell'infelicità" ("Die Beschreibung des Unglücks"). Seguendo questa diagnosi sebaldiana, la causa della patologia dell'infelicità austriaca del XX secolo va ricercata nel sentimento, ambivalente e sofferto, di avversione e di ricerca della patria. Gli eventi traumatici del Novecento, e la consapevolezza delle colpe dell'Austria nel suo consenso al nazismo, hanno segnato in senso problematico l'identità culturale di questo paese, e con essa anche la cognizione del dolore. Oltre a Jean Améry, che ho sopra ricordato, penso ad autori del calibro di Thomas Bernhard, di Ingeborg Bachmann, di Peter Handke, ma anche alla poetessa di origine contadine Christine Lavant. Se c'è un tema di fondo che attraversa, come un filo sotterraneo, questo tracciato letterario è l'impotenza di fronte al dolore, e al contempo l'assunzione del pathos come elemento di rottura delle forme. La sofferenza informa di sé l'esistenza, e la deforma. E pur tuttavia, questa deformazione si attua secondo modalità diverse: il dolore fa urlare, ma anche ammutolisce, fa delirare o irrigidire, straripa dalle forme e pietrifica, se esige di essere espresso, cozza contro i limiti del linguaggio.
Nessuno scrittore più di Franz Kafka si è inoltrato in quel "mondo inconoscibile" che è la zona di transizione tra l'umano e il bestiale, tra la cosiddetta natura e la cosiddetta cultura, tra la inconsapevolezza e la consapevolezza. L'intera opera kafkiana si muove sotto il segno del passaggio tra animalità e umanità, in una sorta di "assalto al limite". Basterebbe ricordare quel capolavoro che è il racconto La metamorfosi (Die Verwandlung), del 1912, per sottolineare la centralità di questo motivo. Ma, già se si dà un'occhiata ai titoli dei racconti più brevi, come La tana (Der Bau, 1923), Giuseppina la cantante, ossia il popolo dei topi (Josefi ne, die Sängerin oder das Volk der Mäuse, 1924), Indagini di un cane (Forschungen eines Hundes, 1922), ci si rende conto di quanti "quasi animali" affollano la letteratura kafkiana. Le Erzählungen annoverano una nutrita popolazione di fi gure bestiali: insetti, cani, topi, martore, scarafaggi, pantere, avvoltoi, cavalli, talpe, cani, gatti, cornacchie, cammelli e scimmie. Niente di nuovo se si pensa alla favola classica, da Esopo o Ovidio a La Fontaine, che pullula di metafore feriomorfe. E tuttavia – come ha giustamente osservato Günther Stern/Anders nella sua magistrale interpretazione di Kafka pubblicata nel 1951 –, sussiste rispetto alla visione kafkiana una sostanziale differenza. In ambito classico lo scambio tra uomo e animale aveva una chiara funzione didascalica: quella di dimostrare come gli uomini siano animali.
Avventurarsi e poi inoltrarsi nell'opera di Thomas Bernhard non è precisamente come fare una passeggiata, ma la passeggiata è un motivo ricorrente nell'opera bernhardiana (insieme a quella di Handke, di Sebald, di Walser, per fare solo alcuni nomi di passeggiatori nel Novecento di lingua tedesca). Le figure di Bernhard camminano, marciano, corrono, ma in una "direzione opposta" rispetto a quella indicata da Stifter. Talvolta i loro percorsi si snodano nella natura, come quando entrano in un bosco per non fare più ritorno (Gelo, Al limite boschivo, La partita a carte), a volte marciano nel chiuso della loro "casa-prigione", seguendo i percorsi labirintici e infiniti della loro mente (La Fornace, Cemento), altre volte ancora si muovono in un contesto cittadino e metropolitano, a Roma in Estinzione (dove la passeggiata con l'allievo Gambetti conserva un alone aristotelico, il peripatetico) o - più spesso - a Vienna.
L'intera riflessione filosofica di Günther Stern/Anders si snoda intorno al motivo della indeterminatezza costitutiva dell'essere umano che non riesce mai a cogliere la propria essenza in un nucleo definito e stabile, ma soltanto nell'accettazione della propria irriducibile contingenza. È questo il cuore di quell'antropologia negativa che Anders aveva già abbozzato nell'ambito di una conferenza tenuta nel 1929 presso la "Kantgelleschaft" di Francoforte e dal titolo "Die Weltfremdheit des Menschen" (fino a poco tempo fa disponibile solo nella versione francese, da cui è stata mutuata la versione italiana: La natura dell’esistenza e Patologia della libertà). Questo scritto giovanile - che nella intenzione originaria doveva essere solo il primo
passo di un sistema di antropologia filosofica - abbozza in sorprendente anticipo rispetto ai tempi e in maniera del tutto autonoma motivi che diventeranno correnti dopo le riflessioni antropologiche di Plessner e di Gehlen. Al centro dell'argomentazione andersiana sono infatti i temi dello "sradicamento", della "contingenza" e della "vergogna (Scham)" costitutiva all'essere umano che non può mai padroneggiare la propria origine.