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Il pensiero di Günther Stern/Anders (1902-1992) non è mai stato al centro del dibattito filosofico e questo nonostante le sue teorie si siano spesso rivelate tragicamente attuali. C'è da dire che lo stesso Anders ha fatto di tutto per collocarsi in una posizione eccentrica, rifiutando con sdegno e indignazione i compromessi della carriera accademica, prendendo le distanze da alcuni autori che pure rientrano nel suo stesso orizzonte teoretico (Adorno, Arendt, Bloch e Lukács, ad esempio), ma soprattutto sostenendo alcune posizioni estreme e radicali, provocatorie e intransigenti. Un filosofo della esagerazione, potrebbe essere definito, un pensatore che ha programmaticamente eletto il concetto della Übertreibungskunst a sigla del suo metodo speculativo. Era infatti sua ferma convinzione che occorresse deformare per constatare (o anche contestare), per scuotere l'indifferenza di una società dominata e schiacciata dalla tecnica. In un mondo completamente sordo – spiega Anders – si fa necessario urlare le proprie considerazioni affinché arrive all'orecchio di qualcuno almeno una loro flebile eco. Una strategia della esagerazione che ha sortito come effetto quello di fare di lui una "Cassandra della filosofia", un "creatore di panico" o, nel migliore di casi, un pensatore scomodo, che conveniva tenere da parte, confinandolo nella periferie, o magari saccheggiare di nascosto, piuttosto che citare esplicitamente. La delusione per l'ostinata sordità del mondo nei confronti dei suoi ripetuti e disperati appelli ha segnato le sue ultime riflessioni, declinandole in toni aggressivi. Intollerante nei confronti di qualunque compromesso ipocrita, la "filosofia della disperazione" andersiana si è arroccata su toni sempre più aspri e ostinati, intransigenti fino al punto di legittimare persino la violenza con la necessità dell'autodifesa. Non stupisce il fatto che, alla fine della sua esistenza, al suo seguito non ci fosse che uno sparuto gruppo di fans, estimatori che Anders non ha mancato di scoraggiare e deludere, con l'assunzione di posizioni sempre più radicali.
In this paper I tried to demonstrate that the British films depicting football hooliganism could be viewed as glorifying violence. A considerably great number of scenes and a great amount of time devoted to the presentation of violence, together with the unpunished, painless and heroic aspects of such presentations are just one side of the glorifying coin. The other side is occupied with the deeper meaning of particular scenes or the general overtones of the films which seem to develop a tendency to present a hooligan firm as a family-like community that offers happiness and produces a strong feeling of belonging and solidarity that adds spice to the boring working or middle class life. Violent confrontations are depicted as a source of pleasurable emotional arousal that surpass other forms of enjoyment. Moreover, confronting other hooligans helps hooligans to construct hard masculine identity based on physical prowess. Finally, being a good fighter is a fast track to earning a reputation that provides hooligans with a sense of power and importance. Real hooligans starring in the films, thus potentially encouraging viewers to become “wannabe warriors”, is also of great importance. However, the way the audiences react to the on-screen presentation of violence with all its aspects is a topic for much broader research.