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Il saggio propone una ricostruzione critica della concezione di impegno e di politicità della letteratura formulate da Brecht e da Adorno. Concezioni opposte che possono essere considerate le formulazioni più efficaci delle due posizioni predominanti nel dibattito estetico del Novecento.
Adorno fonda la politicità della letteratura sulla sua autonomia e sulla liberazione della forma. La politicità dell’arte scaturisce per lui dal rifiuto della discorsività, dalla aggressiva sottrazione del senso, dalla esposizione del negativo. La sua è una concezione dell’impegno elitaria che subordina il discorso artistico a quello filosofico. Brecht fonda la possibilità politiche della letteratura sulla consapevolezza della medialità dell’esperienza. Può essere rivoluzionario solo l’autore che ha riflettuto sulle mediali condizioni della propria produzione e produce opere che non sono espressione di una soggettività ma lavoro alla trasformazione e al cambiamento di funzione dei dispositivi mediali e delle istituzioni in cui agisce.
La sfida del nominalismo alla realtà degli universali (sia in filosofia che in teologia) è stata un motore del pensiero moderno. Tradotta in termini estetici, ha favorito la resistenza alle generiche convenzioni e ha contribuito a minare le nozioni essenzialiste della forma estetica. Theodor W. Adorno ebbe una risposta tipicamente dialettica al nominalismo, plaudendo alla sua sovversione delle reificazioni categoriche, ma allarmato dal suo livellamento indiscriminato della distinzione tra concetto e oggetto, che poteva anche cancellare la distinzione tra opere d'arte e oggetti di uso quotidiano. In termini musicali, ha apprezzato l'enfasi nominalista sui singoli lavori rispetto alle generiche categorie formali e ha elogiato la rivoluzione atonale di Arnold Schoenberg. Ma era anche consapevole del fatto che, portato all'estremo, il nominalismo poteva condurre al dominio soggettivo di una natura considerata priva di proprie caratteristiche essenziali. Nella sua tardiva riflessione sulla musique informelle, ammirò una musica che evitava sia le categorie reificate che il dominio soggettivo dell'apparente contingenza del mondo materiale, una musica che esprimeva un nominalismo che avrebbe potuto essere meglio chiamato "magico" piuttosto che "convenzionale".
Nella sua opera estrema, Teoria estetica, Adorno menziona Paul Valéry una ventina di volte. Già questo fatto basterebbe ad attestare l’importanza che Valéry riveste per la riflessione adorniana sull’arte e sull’estetico. Infatti Teoria estetica, sebbene costituita nel suo complesso da un corpus testuale di mole imponente, è avara di citazioni e sono tutto sommato pochi gli autori (sia artisti sia filosofi) i cui nomi ricorrono numerose volte tra le sue pagine. Oltre a Kant e Hegel, e oltre a Benjamin, più frequenti di Valéry sono solo Baudelaire, Beckett, Beethoven e Schönberg, mentre all’incirca egualmente frequenti sono Brecht, Goethe e Nietzsche. Vista la parsimonia con la quale Adorno centellina i propri referenti espliciti nel momento in cui compie il massimo sforzo di condensazione teorica di una lunga riflessione sull’estetico, sarebbe avventato relegare il dato della frequenza del nome di Valéry in Teoria estetica nel novero degli accidenti meramente estrinseci. L’impressione della rilevanza di tale riferimento risulta poi sicuramente rafforzata se si vanno a leggere i luoghi in cui viene effettuato il rimando a Valéry.