BDSL-Klassifikation: 17.00.00 20. Jahrhundert (1914-1945) > 17.18.00 Zu einzelnen Autoren
Refine
Document Type
- Part of a Book (4)
- Article (2)
- Preprint (1)
Language
- Italian (7)
Has Fulltext
- yes (7)
Keywords
Il pensiero di Günther Stern/Anders (1902-1992) non è mai stato al centro del dibattito filosofico e questo nonostante le sue teorie si siano spesso rivelate tragicamente attuali. C'è da dire che lo stesso Anders ha fatto di tutto per collocarsi in una posizione eccentrica, rifiutando con sdegno e indignazione i compromessi della carriera accademica, prendendo le distanze da alcuni autori che pure rientrano nel suo stesso orizzonte teoretico (Adorno, Arendt, Bloch e Lukács, ad esempio), ma soprattutto sostenendo alcune posizioni estreme e radicali, provocatorie e intransigenti. Un filosofo della esagerazione, potrebbe essere definito, un pensatore che ha programmaticamente eletto il concetto della Übertreibungskunst a sigla del suo metodo speculativo. Era infatti sua ferma convinzione che occorresse deformare per constatare (o anche contestare), per scuotere l'indifferenza di una società dominata e schiacciata dalla tecnica. In un mondo completamente sordo – spiega Anders – si fa necessario urlare le proprie considerazioni affinché arrive all'orecchio di qualcuno almeno una loro flebile eco. Una strategia della esagerazione che ha sortito come effetto quello di fare di lui una "Cassandra della filosofia", un "creatore di panico" o, nel migliore di casi, un pensatore scomodo, che conveniva tenere da parte, confinandolo nella periferie, o magari saccheggiare di nascosto, piuttosto che citare esplicitamente. La delusione per l'ostinata sordità del mondo nei confronti dei suoi ripetuti e disperati appelli ha segnato le sue ultime riflessioni, declinandole in toni aggressivi. Intollerante nei confronti di qualunque compromesso ipocrita, la "filosofia della disperazione" andersiana si è arroccata su toni sempre più aspri e ostinati, intransigenti fino al punto di legittimare persino la violenza con la necessità dell'autodifesa. Non stupisce il fatto che, alla fine della sua esistenza, al suo seguito non ci fosse che uno sparuto gruppo di fans, estimatori che Anders non ha mancato di scoraggiare e deludere, con l'assunzione di posizioni sempre più radicali.
Quanto narrato da Franz Kafka nella Colonia penale (In der Strafkolonie, 1914) è forse troppo noto per raccontarne la trama. Mi limito a ricordare l'essenziale di questo racconto, che è uno die pochi pubblicati dall'autore in vita. Un viaggiatore approda, nel corso di una sua esplorazione, in una terra di nessuno, tra il noto e l'ignoto, tra il familiare e il perturbante. Si tratta di un’isola tropicale che è sede di una colonia penale. I Tropici di Kafka non presentano nulla di esotico; sono piuttosto il luogo della extraterritorialità par excellence, di una "civiltà" arcaica amministrata da una legge brutale, disumana e palesemente ingiusta. Lo strumento di questa "barbarie" è una macchina omicida, che prima era in auge, ma che ormai – essendo stata messa al bando dal nuovo comandante della colonia – ha assunto le sembianze di un relitto del passato. Rispetto a questo vecchio macchinario, che associa al dolore fisico l'ordine sociale, si sta infatti ormai affermando un nuovo paradigma, simbolo di un sistema più moderato. Il funzionamento dell'apparecchio in dismissione, posto in un insolito campo di sperimentazione, viene illustrato all'esploratore da parte di uno zelante oratore. È un ufficiale, orgoglioso e fedele custode "nei tempi nuovi" del macchinario di ieri, ma soprattutto convinto avvocato difensore della tecnica come barbarie.
Quando, nel 1979, dopo quasi un quarto di secolo di silenzio, Günther Anders decide di raccogliere nel seeondo volume di "Die Antiquiertheit des Menschen", alcuni tra i suoi scritti più significativi, si accorge che la sua intera produzione filosofica non è stata altro che una continua variazione su uno stesso tema. La questione teorica che da sempre ha impegnato la sua ricerca è il configurarsi del rapporto tra uomo e mondo. Un motivo di evidente attualità antropologica, como lo stesso Anders sottolinea già nell'incipit della sua Introduzione: "Questo secondo volume di 'L'uomo è antiquato' e [...] un'antropologia filosofica nell'èra della tecnocrazia". E tuttavia alla tematica più strettamente antropologica vengono esplicitamente dedicate solo alcune pagine del volume, note densissime alle quali Anders affida la sua esplicita tematizzazione di un'antropologia negativa. In realtà, come lo stesso autore confessa in questa sede, i motivi salienti della "Negative Anthropologie" affondano le radici in un terreno fertile e battuto già cinquanta anni addietro, ovvero nella sua concezione giovanile di un'"antropologia filosofica dell'estraniazione".
Un titolo quale "Dialettica negativa e antropologia negativa" sembrerebbe preannunciare un lavoro di confronto tra Th. W. Adorno e Ulrich Sonnemann, sulla scia di una indicazione mutuata dalla "Introduzione" di "Dialettica negativa" (1966). E invece, disattendendo una simile aspettativa, la "Negative Anthropologie" cui ci si riferisce in questo saggio è quella di Günther Stern/Anders. L’idea di un confronto tra le due prospettive nasce dalla curiosità di capire la corrispondenza tra la "dialettica negativa" e l'"antropologia negativa", laddove con il secondo sintagma si intende la concezione andersiana di un'umanità inadeguata al mondo. Che poi non si tratti di una stranezza ma di un interrogativo legittimo lo conferma, indirettamente, lo stesso Adorno, che in una nota contenuta nella sezione della "Dialettica negativa" dedicata alla lettura del pensiero di Heidegger, chiama in causa proprio la lezione di Anders.
Nessuno scrittore più di Franz Kafka si è inoltrato in quel "mondo inconoscibile" che è la zona di transizione tra l'umano e il bestiale, tra la cosiddetta natura e la cosiddetta cultura, tra la inconsapevolezza e la consapevolezza. L'intera opera kafkiana si muove sotto il segno del passaggio tra animalità e umanità, in una sorta di "assalto al limite". Basterebbe ricordare quel capolavoro che è il racconto La metamorfosi (Die Verwandlung), del 1912, per sottolineare la centralità di questo motivo. Ma, già se si dà un'occhiata ai titoli dei racconti più brevi, come La tana (Der Bau, 1923), Giuseppina la cantante, ossia il popolo dei topi (Josefi ne, die Sängerin oder das Volk der Mäuse, 1924), Indagini di un cane (Forschungen eines Hundes, 1922), ci si rende conto di quanti "quasi animali" affollano la letteratura kafkiana. Le Erzählungen annoverano una nutrita popolazione di fi gure bestiali: insetti, cani, topi, martore, scarafaggi, pantere, avvoltoi, cavalli, talpe, cani, gatti, cornacchie, cammelli e scimmie. Niente di nuovo se si pensa alla favola classica, da Esopo o Ovidio a La Fontaine, che pullula di metafore feriomorfe. E tuttavia – come ha giustamente osservato Günther Stern/Anders nella sua magistrale interpretazione di Kafka pubblicata nel 1951 –, sussiste rispetto alla visione kafkiana una sostanziale differenza. In ambito classico lo scambio tra uomo e animale aveva una chiara funzione didascalica: quella di dimostrare come gli uomini siano animali.
L'intera riflessione filosofica di Günther Stern/Anders si snoda intorno al motivo della indeterminatezza costitutiva dell'essere umano che non riesce mai a cogliere la propria essenza in un nucleo definito e stabile, ma soltanto nell'accettazione della propria irriducibile contingenza. È questo il cuore di quell'antropologia negativa che Anders aveva già abbozzato nell'ambito di una conferenza tenuta nel 1929 presso la "Kantgelleschaft" di Francoforte e dal titolo "Die Weltfremdheit des Menschen" (fino a poco tempo fa disponibile solo nella versione francese, da cui è stata mutuata la versione italiana: La natura dell’esistenza e Patologia della libertà). Questo scritto giovanile - che nella intenzione originaria doveva essere solo il primo
passo di un sistema di antropologia filosofica - abbozza in sorprendente anticipo rispetto ai tempi e in maniera del tutto autonoma motivi che diventeranno correnti dopo le riflessioni antropologiche di Plessner e di Gehlen. Al centro dell'argomentazione andersiana sono infatti i temi dello "sradicamento", della "contingenza" e della "vergogna (Scham)" costitutiva all'essere umano che non può mai padroneggiare la propria origine.
Queste note su memoria e oblio prendono le mosse da due fenomeni noti, pur nella loro enigmaticità, e apparentemente opposti come il déjà-vu e il jamais-vu. Accade qualcosa e si ha l'impressione che si stia ripetendo un evento già vissuto, oppure ci si trova in un luogo praticato da anni e, a un certo punto, letteralmente, non lo si riconosce più, percependolo come nuovo ed estraneo. Si tratta di sentimenti che, pur facendo parte dell'esperienza più comune, conservano un alone di opacità. Sia nella "familiarità estranea" sia nella "estraneità familiare" si ha a che fare con uno spaesamento, una vertigine emotiva che sulle prime fa retroagire la nostra comprensione. In entrambi i casi lo stupore si accompagna all'inquietudine: la portata dirompente del nuovo strappa fuori dal riparo delle proprie certezze, dall'impalcatura delle proprie conoscenze. Sono i momenti di interferenza di livelli temporali diversi, in cui alla finitudine dell'evento vissuto si giustappone l'illimitata dimensione del ricordo. La simultaneità delle sfere contrapposte, il loro cortocircuitare e sovrapporsi, dà luogo a uno spaesamento, che talvolta assume un carattere demonico, perturbante (unheimlich), per dirla con Freud. Il senso dell'Unheimlichkeit fa tutt'uno con il sentimento di angoscia o di terrore che si genera nella conversione dell'opposto, quando il noto diventa fonte di terrore, quando il familiare si fa estraneo, o anche quando l'estraneo appare come familiare. Il ritorno del rimosso, sotto forma di paure o desideri inconfessabili, rinvia ai conflitti dell'infanzia e alle fase arcaiche della vita umana. In questo senso rappresenta una "promessa" che il presente non ha saputo esaudire, e che sopravvive in tutta la sua carica sovversiva.