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Il saggio indaga le connessioni tra l’abolizione della prostituzione legalizzata e i processi di democratizzazione in Germania e Italia, a partire dalla storia dei diritti umani nella sua interazione con il sistema politico. Le fonti principali sono i dibattiti parlamentari e le leggi che portarono alla chiusura dei bordelli e all’abolizione del sistema di sorveglianza nel 1927 in Germania e nel 1958 in Italia. I dibattiti sulla prostituzione pongono anche la questione dell’uguaglianza e della giustizia di genere. In particolare, il problema della regolamentazione della prostituzione, la cui efficienza viene verificata da un numero sempre maggiore di ricercatori nel corso del XX secolo, dispiega fattori di politica sanitaria, di diritti umani e di morale, aspetti di politica sociale e di sicurezza, mettendo in discussione non solo la gerarchia tra i generi, ma anche quella tra gli strati sociali.
La distinzione fra apollineo e dionisiaco è ritornata di moda grazie a Friedrich Nietzsche, che se ne è servito nella sua famosa opera La nascita della tragedia dallo spirito della musica. Questo scritto, tuttavia, non persegue affatto l’intento di contribuire a comprendere questi concetti, ma si serve di questa distinzione per spiegare due aspetti di colonialismo d’insediamento in forma di stato, con particolare riferimento all’esempio dell’Africa Sud Occidentale e della sua capitale Windhoek. Come è noto, Apollo veniva considerato il Dio del sole e della ragione, mentre Dionisio era visto come il Dio dell’ebbrezza e dell’estasi. Nel presente contesto, l’apollineo rappresenta il sogno utopico di potere di stato coloniale, comportante il diritto assoluto all’uso della forza, a giudicare, a proteggere ed a praticare una politica attentamente pianificata, mentre il dionisiaco rappresenta, grosso modo, la mentalità pionieristica dei coloni e le loro tendenze anomiche, derivanti alla fin fine dall’illegittimità incontrastata dell’intero progetto coloniale. Nello stesso tempo questo scritto si avvale di un altro contrasto: giorno e notte. È usato in senso metaforico – ma non esclusivamente. E mentre il primo rispecchia “il regno della luce”, basato sul potere dello stato e su una vita pubblica che evidenzia le caratteristiche di società civile, la seconda rappresenta la fase del giorno in cui la notte scende ed il controllo da parte dello stato viene a cessare del tutto, mentre la «vita coloniale sotterranea» si risveglia.
Enthält 2 Teile:
Oliva Menozzi: Introduction S. 1-10
Gloria Adinolfi, Silvano Agostini, Valentina Belfiore, Rodolfo Carmagnola, Maria Violeta Carniel, Vincenzo d’Ercole, Rocco D’Errico, Maria Giorgia Di Antonio, Eugenio Di Valerio, Maria Emilia Masci, Maria CristinaMancini, Oliva Menozzi, Donato Palumbo, Ilaria Zelante: Le metodologie, il team risultati preliminari del digital imaging. S. 11-52
Cominciamo dalla fine. Il passo in cui Radulfus Niger racconta dell’intervento del misterioso Pepo o Pepone nel placito tenutosi in Lombardia alla presenza di Enrico IV è divenuto ormai famoso. Quanti si sforzano di gettare luce sulle origini del rinascimento giuridico medievale, lo hanno letto e riletto indagandone anche i minimi dettagli. Eppure, ogni ulteriore lettura di quel passo sembra proporre motivi di interesse e spunti di riflessione sempre nuovi. ...
Gli storici del diritto dell’età medievale – quei pochi, almeno, o pochissimi che ancora si interessano ai secoli che segnarono il passaggio dalla tarda antichità al primo medioevo – non possono che salutare con grande piacere il volume del L. riconoscendovi immediatamente un nuovo e prezioso strumento di lavoro. L’importanza della Gallia tardoantica e poi di quella merovingia nella storia della tradizione giuridica romanistica era certo già nota da tempo. Merito del L. non è però solo quello di riproporre all’interesse della storiografia un tema – quello della storia delle fonti normative e giurisprudenziali di quell’epoca così particolare – che negli ultimi decenni, nonostante alcune lodevoli eccezioni, sembrava avviato a un progressivo abbandono. Nella sua rassegna d’insieme, egli non si limita infatti a riferire lo stato delle ricerche aggiornando e integrando l’opera tuttora fondamentale del Conrat.1 Si sforza invece di intervenire costantemente, prendendo posizione in pratica su ogni questione e proponendo, di volta in volta, integrazioni, precisazioni e, soprattutto, originali considerazioni, frutto di lunghi studi personali. Un libro coraggioso e sovente originale, dunque, che – è facile prevedere – nelle librerie degli studiosi del diritto nell’età altomedievale troverà posto, appunto, accanto alla Geschichte del Conrat. ...
The article describes the witnesses of three Venetian chronicles of the Houghton Library of the Harvard University in Cambridge (Massachusetts). The paper manuscript Ital. 67, dating to the 16th century, is acephalous and contains a history of Venice from 1106 to the 15th century. The story ends, in fact, by mentioning the noble captain Piero Loredan (1372 - 28 October 1438). The codex belonged to the Ward M. Canaday couple, who donated it to the Houghton library in 1964. The paper manuscript Ital. 178 dates to the XV century (the term post quem is 1417) and contains a history of Venice from the origins to the fifteenth century. It is mutilated in the final part. The codex belonged first to Walter Sneyd (1809-1888), then to Charles William Previté-Orton (1877-1947). It is not possible at the moment to indicate the exact date when the manuscript became part of the collection of the Houghton Library, where it is housed since 1996. The paper manuscript Riant 12 dates to the 17th century and contains a Chronicle of Venice from its foundation until 1432. The codex belonged to Count Paul Edouard Didier Riant (1836-1888) and entered the library of Harvard University in 1899. Keywords Venetian chronicles. Description of manuscripts. Houghton Library of Cambridge (Massachusetts). Ms. Ital. 67. Ital. 178. Riant 12.
L'osservazione secondo la quale lo scarto come oggetto di ricerca sia allo stesso tempo un effetto della sua ricerca è ciò che l'articolo traccia in tre studi sulla spazzatura: Rubbish! di William Rathje e Cullen Murphy, Un mondo usa e getta di Guido Viale e Das Miill-System di Volker Grassmuck e Christian Unverzagt. Questi tre studi esemplificano tre modi di presentare lo scarto: esplorazione, problema e ricie/aggio. Guardarli come argomenti scientifici ci permette di discutere di ciò che è considerato scarto ponendo domande di presentazione testuale e, allo stesso tempo, di chiedere quali conseguenze abbia la presentazione per il concetto scientifico dello scarto.
"Si potrebbe credere, che i due concetti 'stato territoriale' e 'feudo' siano fino a un certo grado opposti": così Ernst Klebel introduce, aprendo nel 1956 Territorialstaat und Lehen, la contraddizione a suo avviso insita nell’accostare due forme tanto diverse di organizzazione politica, quali sono quella che fonda la propria autorità su un principio astratto di ordinamento territoriale e l’altra che afferma invece la propria superiorità attraverso legami personali come quelli vassallatici. ...
Heinrich Kalteisen
(2014)
i può probabilmente acconsentire a quel giudizio di Francesco Guicciardini che le capacità, il talento e la saggezza del principe si specchiano anche nella scelta dei suoi ambasciatori. È perciò un aspetto molto affascinante di questo libro il mettere a fuoco gli attori ed esecutori dei potentati ed esaminare la loro interazione e comunicazione con il reggente. Sembra particolarmente interessante studiare gli incaricati di missioni diplomatiche di Massimiliano I visto che queste diedero il via all’ascesa della sua casata – non solo nei regni iberici ma anche in Boemia ed in Ungheria – non per mezzo della guerra, ma mediante la diplomazia, attraverso le trattative e le negoziazioni matrimoniali. Gregor Metzig che dichiara di volersi distaccare, con la sua tesi di dottorato, dalla «storiografia diplomatica convenzionale» e dalla tendenza classica a considerare la «politica europea» di Massimiliano come una «semplice catena di avvenimenti alternanti tra guerre, tregue e riprese delle ostilità tra le case rivaleggianti» (2), si mette sulle tracce di queste persone abili e valenti, gli ambasciatori, che operarono con, per e all’ombra di Massimiliano I e che sono spesso cadute vittime dell’oblio. ...
Una notte del 1749 la giovane ebrea romana Anna del Monte, diciottenne membro di un’importante famiglia del ghetto, fu prelevata in casa dagli sbirri e condotta alla Pia Casa dei Catecumeni – un’istituzione fondata nel 1542/43 per ospitare coloro che intendevano convertirsi al cattolicesimo. Nel caso di Anna, si voleva sondare la sua volontà di convertirsi e indurla a compiere tale passo. Questo rapimento era una misura legale – come è noto anche dai lavori di Marina Caffiero –che poteva colpire qualunque ebreo fosse accusato di aver manifestato il desiderio o l’intenzione di convertirsi al cattolicesimo – ma anche colui o colei che un convertito avesse »offerto« alla fede cristiana, qualora il neofito potesse rivendicare su di lui/lei la patria potestas, interpretata in senso lato. Era stato un sedicente promesso sposo – il neofito Sabato Coen – ad offrire alla fede Anna del Monte, probabilmente con la speranza di stipulare un matrimonio vantaggioso al quale egli avrebbe potuto difficilmente ambire, considerando le sue umili origini. Anna fu trattenuta ai Catecumeni per 13 giorni, dei quali tenne il novero mettendo da parte una delle due uova che le venivano portate quotidianamente su sua richiesta. Durante l’internamento resistette ai tentativi conversionistici, alle lusinghe e alle minacce di ecclesiastici e neofiti e finanche al maldestro tentativo di battesimo di un predicatore, che cercò di perfezionare il rito gettandole addosso dell’acqua – tentativo al quale la giovane reagì dichiarando di non voler aver nulla a che fare con le sue "superstizioni" e di subire il gesto come "se le avesse urinato addosso un cane". Salda nel rifiuto del battesimo, Anna fu infine restituita al ghetto. ...
L’autore ricostruisce l’impatto del saggio di Max Weber sulla città nella storiografia tedesca a partire dalla fine degli anni Ottanta. Esso indica altresì il significato politico della "scoperta" weberiana della città come nucleo genetico della politica occidentale, con il suo universalismo che Weber data addirittura all’incontro tra gli apostoli Pietro e Paolo ad Antiochia. La "città" è per Weber la sede della possibilità teorica e fattuale di creare un diritto autonomo e nuovo. Essa è certamente il luogo di origine della predominanza politica della borghesia, ma nel paradigma weberiano basato sulla razionalizzazione come processo tipico della cultura occidentale, essa indica un percorso che prosegue ancora oggi nell’epoca delle migrazioni e della globalizzazione.
Nell’ambito di questo seminario, il mio compito, come da titolo, non consisterà in un’esposizione del progetto, ma in una riflessione sul medesimo, condotta dall’esterno e in linea con gli interessi della ricerca tedesca. Quanto dirò dovrà dimostrare che proprio una riflessione di questo tipo può condurci nei pressi di questioni ero ciali e spesso non sollevate consapevolmente -, le quali concernono intrecci di relazioni scientifiche, afferiscono, di conseguenza, anche al progetto e possono evidenziarne il significato per la storia della scienza tedesca. ...
Nonostante una carrieraaccademica costruita e fondata nellaScienza del diritto, "in quanto giurista" Max Weber viene pochissi-mo preso in considerazione, in particolare proprio daparte della ri-cerca tedesca. Si cercheràqui di mostrare, partendodalla sua Dis-sertazione in Storia del diritto, l’impronta ricevutada Weber dal-l’ultima fase della Scuola storica e il significato che ciòebbe per il suosuccessivo lavoro come sociologo del diritto ma anche per il tipoparticolare della sua costruzione concettuale sociologica. ...
È noto che i Poliorketika di Enea Tattico costituiscono un affresco straordinario sulla vita di una piccola comunità greca della metà del IV sec. a.C. sotto la minaccia di un assedio. Gran parte degli sforzi dell’autore è rivolta ad istruire i cittadini su come prepararsi a sostenere un blocco imposto dal nemico: tramite un’attenta regolamentazione delle attività quotidiane si mira a mantenere unita la comunità, nella convinzione che i pericoli maggiori possano giungere dall’interno. Soltanto nei paragrafi conclusivi di ciò che rimane dei Poliorketika (i quali, si ricordi, sono mutili del finale), e precisamente a partire dal capitolo 32, si inaugura "l’unica sezione unitaria sicuramente individuabile", come riconosciuto dalla critica, dedicata stavolta alle contromisure da adottare in previsione di attacchi portati direttamente contro le mura con l’ausilio di mezzi d’assalto, scale e operazioni di scavo. ...
Una recente edizione dei Poliorketika di Apollodoro di Damasco ha riproposto alla comunità scientifica quest’opera poco conosciuta, rendendo disponibile un testo che, data la sua natura puramente tecnica, rientra nel novero delle poche testimonianze greco-latine in cui vengono descritti nel dettaglio alcuni congegni ossidionali e riveste pertanto una notevole rilevanza per la nostra conoscenza della poliorcetica antica. ...
Studia Austriaca ; 13.2005
(2012)
Grazie all’accordo concluso con il Console Mario Erschen nel 1994, e rinnovato con la Dr. Stella Avallone nel 2003, anche questo nuovo volume di Studia austriaca esce per iniziativa congiunta del Forum Austriaco di Cultura (già Istituto Austriaco di Cultura) a Milano e della Sezione di Germanistica (già Istituto di Germanistica) del Dipartimento di Studi Linguistici, Letterari e Filologici (DI.LI.LE.FI) dell’Università degli Studi di Milano.
Il presente lavoro ha come oggetto d'esame lo scontro del filosofo neo-idealista Giovanni Gentile (1875-1944) col Modernismo cattolico. Obiettivo del lavoro è offrire per la prima volta un esame completo della controversa, durata sei anni, dal 1903 al 1909, attraverso una constestualizzazione storico ecclesiastica e storico filosofica di essa. Il tutto basandosi sulla pubblicazione di inediti fonti d'archivio.
The project is focusing on a monumental funerary complex which is located in the Valley of the Nobles at Luxor. The topographic context is certainly very interesting, both because it is not very well known and deeply investigated, as well as because it appears to have been densely exploited in antiquity and for long time. It was then intensively inhabited in the last two centuries, fact that determined the obliteration of numerous tombs, but also the loss of the sense of context of this section of the ancient necropolis of Luxor. It was certainly in antiquity an important section of the necropolis, looking at the monumentality of some of the tombs, and it has been continuously used for centuries for funerary purposes, not only during the "pharaonic period", but also during later periods, as clearly suggested by Ptolemaic tombs, Greco-Roman inscriptions and finds.
A large team is collaborating at the project, including very different scholars and senior students working together from the excavation to the topographic survey, from the diagnostic mapping to the conservation, from the anthropometric analysis to the archaeometric studies, from the epigraphic interpretation to the historical reconstruction. A multidisciplinary approach to the study of this funerary complex can guarantee both an interdisciplinary interpretation of the monuments, as well as of their evolution and use throughout a long period. Too often, in fact, the monuments in Egypt are analysed just looking at their original plan and use in the pharaonic period; nevertheless, in the Theban necropolis the interesting phenomenon of the ‘re-use’ is widely attested, and the tombs present frequent enlargements, later openings, junctions with neighbor tombs, later passages transforming the original plans.
The Neferhotep’s Complex represents one of the most interesting in this sense because about six tombs have been built around a large courtyard in the late Bronze period, but about three more phases are clearly attested now by the new excavations and surveys, showing that also in the ‘later periods’, from the 7th to the 1st centuries BC, the tombs in this complex were continuously reused for burials and widely reorganized, transforming slowly their original shapes. In Roman times, the presence of the legions in the area, has determined a partial change of use of some of the areas of the necropolis, while some other contexts have continued to be used for funerary purposes.
The plan of the funerary complex is quite articulated (fig.1), with a central square courtyard, crowning and emphasizing the larger tomb, which is known as TT49. It was built just at the end of the XVIII dynasty and still preserves the original spectacular paintings. The conservation of the decorations is based on the use of a non-invasive laser methodology. A German team (PROCON) is conservating the tomb, and within the last eight seasons a large portion of the paintings in the funerary chapel have been completely cleaned and consolidated. An equip of Egyptologists, both Argentinian (the University of Buenos Aires and the CONICET) and Brasilian (of the National Museum of Rio de Janeiro) is studying and interpreting hieroglyphics and iconographies. Moreover, a team of archaeologists, geologists and topographers from the University of Chieti is working at the excavations of other two tombs of this architectonic complex and at the mapping of the context and of the tombs. During the last seasons also a team of anthropologists and palaeo-botanists from the Museum of Chieti University has joined the team, especially because of the large quantity of human and organic remains coming from the excavations. The aim of this paper is to present the project, its interdisciplinary methodologies and the preliminary results of the last seasons. Moreover, the complex is presented here analyzing not only the main original tombs and monuments, but including the numerous phases through the centuries till recent times.
La tradizione funeraria dell’isola di Cipro prevede fin da età Geometrica ed Arcaica l’utilizzo di sepolture di tipo rupestre, in modo particolare di camere ipogee ricavate solitamente al di sotto del banco roccioso, che possono essere viste come uno sviluppo delle tombe a camera dell'età del Bronzo. A partire dalla fase di transizione da età Classica ad età Ellenistica, con la presenza tolemaica nell'isola, vengono importati nuovi modelli e le camere vengono regolarizzate e dotate di elementi "monumentali" interni. In questa sede si analizzano le tipologie della loculus chamber e le attestazioni di utilizzo dell'arcosolium nell'area delle antiche città di Paphos e Kourion.
Parlare di Ernst Bloch e l'Espressionismo significa parlare del pensiero die Ernst Bloch nella sua complessità. Già per lo stile la sua prima opera, Geist der Utopie (Spirito dell'Utopie), scritta nel 1918 è spiccatamente espressionista. Ma, oltre allo stile, rientrano nalla cornice dell'Expressionismus anche alcuni temi artistici affrontati da Bloch in questa prima opera. Certo le considerazioni eposte da Bloch sull'arte espressionista in Spirito dell'utopia sono più in forma di flash, di accenno, piú pensieri estemporanei che riflessioni sistematiche.
Queste note su memoria e oblio prendono le mosse da due fenomeni noti, pur nella loro enigmaticità, e apparentemente opposti come il déjà-vu e il jamais-vu. Accade qualcosa e si ha l'impressione che si stia ripetendo un evento già vissuto, oppure ci si trova in un luogo praticato da anni e, a un certo punto, letteralmente, non lo si riconosce più, percependolo come nuovo ed estraneo. Si tratta di sentimenti che, pur facendo parte dell'esperienza più comune, conservano un alone di opacità. Sia nella "familiarità estranea" sia nella "estraneità familiare" si ha a che fare con uno spaesamento, una vertigine emotiva che sulle prime fa retroagire la nostra comprensione. In entrambi i casi lo stupore si accompagna all'inquietudine: la portata dirompente del nuovo strappa fuori dal riparo delle proprie certezze, dall'impalcatura delle proprie conoscenze. Sono i momenti di interferenza di livelli temporali diversi, in cui alla finitudine dell'evento vissuto si giustappone l'illimitata dimensione del ricordo. La simultaneità delle sfere contrapposte, il loro cortocircuitare e sovrapporsi, dà luogo a uno spaesamento, che talvolta assume un carattere demonico, perturbante (unheimlich), per dirla con Freud. Il senso dell'Unheimlichkeit fa tutt'uno con il sentimento di angoscia o di terrore che si genera nella conversione dell'opposto, quando il noto diventa fonte di terrore, quando il familiare si fa estraneo, o anche quando l'estraneo appare come familiare. Il ritorno del rimosso, sotto forma di paure o desideri inconfessabili, rinvia ai conflitti dell'infanzia e alle fase arcaiche della vita umana. In questo senso rappresenta una "promessa" che il presente non ha saputo esaudire, e che sopravvive in tutta la sua carica sovversiva.
Nessuno scrittore più di Franz Kafka si è inoltrato in quel "mondo inconoscibile" che è la zona di transizione tra l'umano e il bestiale, tra la cosiddetta natura e la cosiddetta cultura, tra la inconsapevolezza e la consapevolezza. L'intera opera kafkiana si muove sotto il segno del passaggio tra animalità e umanità, in una sorta di "assalto al limite". Basterebbe ricordare quel capolavoro che è il racconto La metamorfosi (Die Verwandlung), del 1912, per sottolineare la centralità di questo motivo. Ma, già se si dà un'occhiata ai titoli dei racconti più brevi, come La tana (Der Bau, 1923), Giuseppina la cantante, ossia il popolo dei topi (Josefi ne, die Sängerin oder das Volk der Mäuse, 1924), Indagini di un cane (Forschungen eines Hundes, 1922), ci si rende conto di quanti "quasi animali" affollano la letteratura kafkiana. Le Erzählungen annoverano una nutrita popolazione di fi gure bestiali: insetti, cani, topi, martore, scarafaggi, pantere, avvoltoi, cavalli, talpe, cani, gatti, cornacchie, cammelli e scimmie. Niente di nuovo se si pensa alla favola classica, da Esopo o Ovidio a La Fontaine, che pullula di metafore feriomorfe. E tuttavia – come ha giustamente osservato Günther Stern/Anders nella sua magistrale interpretazione di Kafka pubblicata nel 1951 –, sussiste rispetto alla visione kafkiana una sostanziale differenza. In ambito classico lo scambio tra uomo e animale aveva una chiara funzione didascalica: quella di dimostrare come gli uomini siano animali.
Sulla scorta di 135 rilievi per lo piu inediti, eseguiti negli orizzonti collinare e submontano delle Prealpi calcaree italiane tra il Lago Maggiore e quelle di Garda, vien proposto un inquadramento fitosociologico a livello di alleanza dei boschi misti di latifoglie a prevalenza di Ostrya carpinifolia, denominado provvisoriamente come segue le rispettive associazioni presunte: Asperulo taurinae-Tilietum Ellenb. et Klötzli 1972 (Tilion); Symphyto tuberosi-Ostryetum prov. (Cephalanthero-Fagion); Carpino betuli-Ostryetum Ellenb. et Klötzli 1972 (Carpinion); Fraxino orni-Ostryetum Ellenb. et Klötzli 1972 (Quercion pubescenti-petraeae).
Nel 1773 il ventiquattrenne Johann Wolfgang von Goethe, forse il più grande scrittore della tradizione letteraria tedesca, pubblicò anonimo un saggio intitolato "Zwo wichtige bisher unerörterte biblische Fragen: Zum erstenmal gründlich beantwortet, von einem Landgeistlichen in Schwaben" ["Due questioni bibliche importanti finora mai discusse: per la prima volta sostanzialmente risolte da un curato di campagna in Svevia"]. In questo testo il giovane Goethe sperimenta molte di quelle invenzioni letterarie che caratterizzeranno la sua opera matura. Il testo si presenta come una lettera scritta da un pastore rurale ad un vecchio amico fidato. Scrivendo in una fredda notte d’inverno, il pastore descrive uno stato di confusione nella mente di suo figlio, provocato dagli studi di teologia che questi aveva compiuto all'università. Questo saggio è il primo lavoro di letteratura, a me noto, nel quale la disciplina degli studi biblici accademici, da poco emergente, essendo stata appena allora introdotta nel curriculum universitario, sia direttamente tematizzata e per di più nel campo della finzione letteraria. Il saggio di Goethe segna un momento importante nella storia culturale e intellettuale. Il saggio è significativo per la sua rappresentazione della disciplina emergente degli studi biblici, per le sue riflessioni sulla relazione tra ebraismo e cristianesimo, tra le nozioni filosofiche di universale e particolare, e per le vicende intellettuali che suscitò dopo la pubblicazione.
Quanto narrato da Franz Kafka nella Colonia penale (In der Strafkolonie, 1914) è forse troppo noto per raccontarne la trama. Mi limito a ricordare l'essenziale di questo racconto, che è uno die pochi pubblicati dall'autore in vita. Un viaggiatore approda, nel corso di una sua esplorazione, in una terra di nessuno, tra il noto e l'ignoto, tra il familiare e il perturbante. Si tratta di un’isola tropicale che è sede di una colonia penale. I Tropici di Kafka non presentano nulla di esotico; sono piuttosto il luogo della extraterritorialità par excellence, di una "civiltà" arcaica amministrata da una legge brutale, disumana e palesemente ingiusta. Lo strumento di questa "barbarie" è una macchina omicida, che prima era in auge, ma che ormai – essendo stata messa al bando dal nuovo comandante della colonia – ha assunto le sembianze di un relitto del passato. Rispetto a questo vecchio macchinario, che associa al dolore fisico l'ordine sociale, si sta infatti ormai affermando un nuovo paradigma, simbolo di un sistema più moderato. Il funzionamento dell'apparecchio in dismissione, posto in un insolito campo di sperimentazione, viene illustrato all'esploratore da parte di uno zelante oratore. È un ufficiale, orgoglioso e fedele custode "nei tempi nuovi" del macchinario di ieri, ma soprattutto convinto avvocato difensore della tecnica come barbarie.
Avventurarsi e poi inoltrarsi nell'opera di Thomas Bernhard non è precisamente come fare una passeggiata, ma la passeggiata è un motivo ricorrente nell'opera bernhardiana (insieme a quella di Handke, di Sebald, di Walser, per fare solo alcuni nomi di passeggiatori nel Novecento di lingua tedesca). Le figure di Bernhard camminano, marciano, corrono, ma in una "direzione opposta" rispetto a quella indicata da Stifter. Talvolta i loro percorsi si snodano nella natura, come quando entrano in un bosco per non fare più ritorno (Gelo, Al limite boschivo, La partita a carte), a volte marciano nel chiuso della loro "casa-prigione", seguendo i percorsi labirintici e infiniti della loro mente (La Fornace, Cemento), altre volte ancora si muovono in un contesto cittadino e metropolitano, a Roma in Estinzione (dove la passeggiata con l'allievo Gambetti conserva un alone aristotelico, il peripatetico) o - più spesso - a Vienna.
L'intera riflessione filosofica di Günther Stern/Anders si snoda intorno al motivo della indeterminatezza costitutiva dell'essere umano che non riesce mai a cogliere la propria essenza in un nucleo definito e stabile, ma soltanto nell'accettazione della propria irriducibile contingenza. È questo il cuore di quell'antropologia negativa che Anders aveva già abbozzato nell'ambito di una conferenza tenuta nel 1929 presso la "Kantgelleschaft" di Francoforte e dal titolo "Die Weltfremdheit des Menschen" (fino a poco tempo fa disponibile solo nella versione francese, da cui è stata mutuata la versione italiana: La natura dell’esistenza e Patologia della libertà). Questo scritto giovanile - che nella intenzione originaria doveva essere solo il primo
passo di un sistema di antropologia filosofica - abbozza in sorprendente anticipo rispetto ai tempi e in maniera del tutto autonoma motivi che diventeranno correnti dopo le riflessioni antropologiche di Plessner e di Gehlen. Al centro dell'argomentazione andersiana sono infatti i temi dello "sradicamento", della "contingenza" e della "vergogna (Scham)" costitutiva all'essere umano che non può mai padroneggiare la propria origine.
Non è certo un caso se da quasi un secolo si parla di Austria infelix, per designare una cultura austriaca intrisa di dolore, o forse ancor meglio, per dirla con Jean Améry, di un Morbus Austriacus che si è propagato come in una forma di contagio. Non è forse ancora un caso se Winfried Georg (Max) Sebald ha intitolato la sua opera saggistica del 1985 – in cui ripercorre alcune delle tappe salienti dell'itinerario letterario austriaco come stazioni del dolore – "La descrizione dell'infelicità" ("Die Beschreibung des Unglücks"). Seguendo questa diagnosi sebaldiana, la causa della patologia dell'infelicità austriaca del XX secolo va ricercata nel sentimento, ambivalente e sofferto, di avversione e di ricerca della patria. Gli eventi traumatici del Novecento, e la consapevolezza delle colpe dell'Austria nel suo consenso al nazismo, hanno segnato in senso problematico l'identità culturale di questo paese, e con essa anche la cognizione del dolore. Oltre a Jean Améry, che ho sopra ricordato, penso ad autori del calibro di Thomas Bernhard, di Ingeborg Bachmann, di Peter Handke, ma anche alla poetessa di origine contadine Christine Lavant. Se c'è un tema di fondo che attraversa, come un filo sotterraneo, questo tracciato letterario è l'impotenza di fronte al dolore, e al contempo l'assunzione del pathos come elemento di rottura delle forme. La sofferenza informa di sé l'esistenza, e la deforma. E pur tuttavia, questa deformazione si attua secondo modalità diverse: il dolore fa urlare, ma anche ammutolisce, fa delirare o irrigidire, straripa dalle forme e pietrifica, se esige di essere espresso, cozza contro i limiti del linguaggio.
Il pensiero di Günther Stern/Anders (1902-1992) non è mai stato al centro del dibattito filosofico e questo nonostante le sue teorie si siano spesso rivelate tragicamente attuali. C'è da dire che lo stesso Anders ha fatto di tutto per collocarsi in una posizione eccentrica, rifiutando con sdegno e indignazione i compromessi della carriera accademica, prendendo le distanze da alcuni autori che pure rientrano nel suo stesso orizzonte teoretico (Adorno, Arendt, Bloch e Lukács, ad esempio), ma soprattutto sostenendo alcune posizioni estreme e radicali, provocatorie e intransigenti. Un filosofo della esagerazione, potrebbe essere definito, un pensatore che ha programmaticamente eletto il concetto della Übertreibungskunst a sigla del suo metodo speculativo. Era infatti sua ferma convinzione che occorresse deformare per constatare (o anche contestare), per scuotere l'indifferenza di una società dominata e schiacciata dalla tecnica. In un mondo completamente sordo – spiega Anders – si fa necessario urlare le proprie considerazioni affinché arrive all'orecchio di qualcuno almeno una loro flebile eco. Una strategia della esagerazione che ha sortito come effetto quello di fare di lui una "Cassandra della filosofia", un "creatore di panico" o, nel migliore di casi, un pensatore scomodo, che conveniva tenere da parte, confinandolo nella periferie, o magari saccheggiare di nascosto, piuttosto che citare esplicitamente. La delusione per l'ostinata sordità del mondo nei confronti dei suoi ripetuti e disperati appelli ha segnato le sue ultime riflessioni, declinandole in toni aggressivi. Intollerante nei confronti di qualunque compromesso ipocrita, la "filosofia della disperazione" andersiana si è arroccata su toni sempre più aspri e ostinati, intransigenti fino al punto di legittimare persino la violenza con la necessità dell'autodifesa. Non stupisce il fatto che, alla fine della sua esistenza, al suo seguito non ci fosse che uno sparuto gruppo di fans, estimatori che Anders non ha mancato di scoraggiare e deludere, con l'assunzione di posizioni sempre più radicali.
In tutte le sue diverse declinazioni, il dissenso nei riguardi della propria patria costituisce un motivo centrale e ricorrente nella cultura austriaca del Novecento. Come in una sorta di contagio il carattere distruttivo, soprattutto nel Secondo dopoguerra, si è diffuso – e continua a diffondersi – ad ampio raggio: esempi emblematici sono offerti da Peter Handke, con i suoi "insulti all'Austria" urlati dall'esilio francese, dalla prosa sofferta di Ingeborg Bachmann, che ha riparato a Roma, dalla scrittura caustica del Premio Nobel Elfriede Jelinek, o da quella estrema di Werner Schwab. Ma anche da autori meno noti, come Anna Mitgutsch, che, dagli Stati Uniti, non manca di esternare la sua avversione nei confronti del paese d'origine, o dai toni aspri dello scrittore Robert Menasse. Lo steso vale per il campo cinematografi co, con il cinema a tinte forti di Ulrich Seidl. Una passion durevole, quella degli austriaci per i toni antipatriottici, una tradizione che vanta come anticipatore il sacro nome del grande polemista Karl Kraus, o forse, ancor prima, affonda le sue radici nel teatro di Raimund Nestroy. Se l'ostilità per l'Austria sembra un Leitmotiv della grande retorica austriaca, Thomas Bernhard (1931-1989) può essere a giusto titolo considerate non solo come il legittimo erede di questa grande tradizione, ma anche come il suo massimo rappresentante. Ereditare signifi ca infatti fare i conti in modo cinico e rischioso con l'orizzonte vitale e culturale a cui si appartiene e che ci appartiene. Autore diffi cile, maniacale, irriverente ed eccessivo, Bernhard si è imposto all'attenzione del grande pubblico per la sua appassionata denuncia dell'universo austriaco, e della sua atmosfera piccolo-borghese, conformista, ottusamente fi loclericale. I suoi frequenti interventi pubblici – ora raccolti e pubblicati con il titolo Meine Preise – presentano come unico obiettivo la provocazione, e di fatto hanno suscitato scandali, polemiche. Un esempio per tutti è il discorso tenuto nel 1967 per il Conferimento del "Premio Nazionale Austriaco per la Letteratura": "Noi siamo austriaci, siamo apatici, siamo la vita intesa come ignobile disinteresse nei confronti della vita, siamo, nel processo naturale, la megalomania intesa come futuro". Un testo scritto con un inchiostro che è succo di nervi. Ma questa è solo una delle tante puntate che vedono Bernhard in polemica con i suoi connazionali, e che hanno contribuito a designarlo come un Nestbeschmutzer. È questa una visione decisamente riduttiva. Lo humour nero bernhardiano, che di certo ci ha regalato pagine irresistibili, nasce da un sentimento di amore e odio nei confronti dell'Austria. Per dirla in altri termini, è sintomo non di una nevrastenica insofferenza (di cui poco ci importerebbe), quanto piuttosto di una Unheimlichkeit, di un sofferto legame con l'origine. Su questo punto, per ora solo accennato, avrò occasione di tornare.
In un'intervista rilasciata in piena maturità a ricordo degli anni di gioventù, Bloch concentra la sua attenzione sulle rilessioni antimilitaristiche contenute in 'Spirito dell'utopia' (1918 e 1923). soprattutto riformula quella questione che – proposta con veemenza nella Introduzione (dal titolo Intenzione) del suo libro – attraversa come un ilo sotterraneo tutta la sua produzione giovanile: "dove deve essere rintracciata l'origine di quella cecità che ha portato al crimine della guerra? perché il popolo dei poeti e dei pensatori ha imboccato il vicolo cieco del primo conlitto mondiale?".
La vis polemica di Bloch nei confronti dello storico colpo di tuono emerge dai passi iniziali di 'Spirito dell’utopia', uno studio che – come segnala l'"avvertenza" del 1936 – è stato "sviscerato e realizzato di note contro la guerra". È soprattutto a un intenso brano della "Intenzione" che bloch affida la sua denuncia della barbarie della prima conflagrazione bellica, inquadrandola in uno 'Zeitgeist' di generale immiserimento economico e morale.
Tra le parole che si sono prestate agli usi più difformi e ambigui c'è sicuramente il concetto di progresso. Il motivo del "Fortschritt", che si è affermato nel XVIII secolo in contrapposizione alla visione ciclica propria dell'antichità, era associato all'idea di un incremento della produttività e alla prospettiva di uno sviluppo della storia umana. Questa deinizione positiva del progresso, per la quale al "dopo" corrisponde automaticamente il "meglio", sottende una concezione lineare della storia e rimanda a un modello tipicamente costruttivo. Ma il concetto di Fortschritt ha avuto una vita tutt'altro che pacifica: infatti ben presto si è affacciata prepotentemente sulla scena una visione ben diversa del progresso, che ha messo in crisi l'alone di gloria che sembrava accompagnarlo in dai suoi natali. In pochi luoghi è possibile misurare la crisi di questa gloriosa tradizione come nel capitalismo, dove l'ideologia dell'incremento quantitativo non ha portato ad alcun passo in avanti dal punto di vista qualitativo e in senso umano, ma piuttosto si è risolta in problemi globali e in dinamiche distruttive. Di fronte all'attestarsi di un progresso che è manifestazione di negatività, occorre mettere in guardia da un uso acritico della categoria del Fortschritt. È quanto sostiene Bloch in una conferenza tenuta nel 1955 e pubblicata l'anno successive con il titolo "Differenzierungen im Begriff Fortschritt". Come se non bastasse, sul fronte opposto c'è un'altra deriva da scongiurare: il problema che insorge sull'altro versante è quello di un totale rinnegamento del progresso. Si tratta di un errore teorico in cui molti sono caduti, e che segnala la necessità di una rilessione approfondita su questo tema. L'urgenza di interrogarsi sul "Was ist Fortschritt?" non deriva, per Bloch, dal fatto che il termine progresso sia di per sé poco chiaro e manifesto, ma semmai dal cattivo uso che ne è stato fatto Il primo passo da fare, secondo il programma blochiano di un recupero critico del "progresso", è quello di arginare gli intralci. Sono quei percorsi che sembrano condurre al Tiefenweg dell’Umano, e che invece si rivelano "vicoli ciechi" che non portano a nulla, o che sono costellati da botole che fanno ripiombare il viandante al punto di partenza. Da evitare sono inoltre quelle false piste che conducono in direzione contraria, nel senso opposto rispetto alla dimensione della Selbstbegegnung. Ciò che interessa a Bloch è denunciare le aporie contenute nel concetto stesso di "progresso", facendo afiorare quelle differenziazioni che lo rendono al contempo estremamente fragile ed ambiguo.
In un passo di Angelus Novus, Walter Benjamin ebbe a scrivere, citando Pascal : "'Nessuno', dice Pascal, 'muore così povero da non lasciare nulla in eredità'. Ciò vale anche per i ricordi – solo che essi non sempre trovano un erede". Per Thomas Bernhard può dichiararsi a buon titolo erede solo e proprio colui che si assume il compito di elaborare radicalmente il ricordo del passato, di estinguere una volta per tutte il radicamento all'origine. Nel romanzo Estinzione la memoria è condensata in una serie di immagini fotografiche che s'impongono, si sottopongono, si sovrappongono alla coscienza del protagonista, Franz Josef Murau. Sono la cifra del vincolo con l'origine, che qui è la cittadina austriaca di Wolfsegg: un cordone ombelicale che, attraverso il potere corrosivo del ricordo, deve essere reciso, fi bra dopo fi bra. E, per attendere a questo esito, occorre far cortocircuitare le varie visioni che investono la coscienza di Murau: immagini reali, immagini distorte, immagini sfigurate, immagini riflesse, immagini fotografiche, immagini memoriali, immagini sognate, immagini ideali, immagini dell'inconscio. È dalla lettura di una serie di Bilder che Murau attingerà il coraggio necessario per sobbarcarsi il peso di Wolfsegg, dell'origine che ci è toccata in sorte e che, proprio per questo, "delenda est".
Il vincolo dell'origine nella letteratura austriaca del secondo novecento : Il caso Thomas Bernhard
(2009)
La letteratura austriaca del secondo Novecento apre i battenti sotto il segno della ricerca della propria identità culturale, distinta da quella tedesca – alla quale era stata omologata durante il Terzo Reich – e vincolata, ma senza nostalgia, alle coordinate tracciate dalla "età dell’oro" mitteleuropea. È su queste posizioni che si attestano le opere dei cosiddetti "superstiti" della grande tradizione austriaca: Ingeborg Bachmann, Thomas Bernhard, Peter Handke. La loro rilevante produzione, insieme a quella di altri affermati autori – ha avuto da un lato, il merito di restituire l’Austria alla grande letteratura mondiale, dall’altro, di inaugurare la vivace stagione contemporanea, ancora in pieno fermento.
In precedenti saggi ho già evidenziato, analizzando il commercio a lungo raggio e interessandomi del dibattito storiografico sul tardoantico, come l’analisi dei dati archeologici consenta di individuare molte caratteristiche del c.d. "basso impero" e le trasformazioni che avvengono in questo periodo.
Sguardi al limite : Il tema della soglia nel pensiero letterario di Thomas Bernhard e di Ernst Bloch
(2008)
[...] Nelle riflessioni di Bernhard, come in quelle di Bloch, l'esilità del traciato di confine tra opera ed esistenza contribuisce a determinare profondamente lo statuto stesso della immagine e dello sguardo che la contempla. Di fronte a un'arte che è divenuta terreno incerto, l'occhio dello spettatore non può che muoversi in costante bilico, sull'orlo del precipizio, sulla linea di demarcazione tra il mondo irredento e quel regno outopico che la rappresentazione artistica rivela. Ciò che emerge da entrambe le letture è la consapevolezza della necessità di calarsi nelle crepe e negli abissi della realtà. In fondo questo è uno degli insegnamenti fondamentali di Bloch: è nelle buche e nelle lacune che costellano il terreno dell'esistenza che si annida il possibile sognato. Il confine (lo Zwischenraum) incollocabile, tra vita e arte, deve essere affrontato in tutta la sua problematicità funambolesca, e non tolto per mezzo della creazione di un universo fittizio. La relazione pendolare restituisce il senso della cornice mobile, come consapevolezza della impossibilità di tracciare una fisionomia nitida e definitiva del reale. Sia nella prospettiva di Bemhard sia in quella di Bloch l'immagine che tiene prigionieria l'umanita e l'idea della forma formata, una soluzione definiva posticcia e inautentica. La necessaria contromossa consiste allora nell'affidarsi a uno sguardo inquieto, perché consapevole di un'alterità che sempre sfugge.
Sono brevi ma straordinariamente dense e suggestive le riflessioni che Ernst Bloch dedica alla Madonna Sistina nel corso del suo pensiero filosofico, a partire dalla sua prima opera "Spirito dell'utopia" (1918 e 1923) fino al tardo "Experimentum Mundi" (1974), passando per "Il principio speranza" (1947). Con queste "note a margine", Bloch non solo si inserisce a pieno titolo all'interno del dibattito tedesco novecentesco sullo spessore teorico della Sixtinische Madonna1, ma interpreta il dipinto di Raffaello come exemplum di quella dimensione utopica che innerva il suo pensiero. L'interesse che Bloch dimostra nei riguardi di questa insuperata icona occidentale è stato sicuramente influenzato dall'attenzione che hanno riversato su quest'opera alcuni dei suoi "autori di riferimento": da un lato Schopenhauer e Nietzsche, e dall'altro Goethe e Dostoevskij.
Un titolo quale "Dialettica negativa e antropologia negativa" sembrerebbe preannunciare un lavoro di confronto tra Th. W. Adorno e Ulrich Sonnemann, sulla scia di una indicazione mutuata dalla "Introduzione" di "Dialettica negativa" (1966). E invece, disattendendo una simile aspettativa, la "Negative Anthropologie" cui ci si riferisce in questo saggio è quella di Günther Stern/Anders. L’idea di un confronto tra le due prospettive nasce dalla curiosità di capire la corrispondenza tra la "dialettica negativa" e l'"antropologia negativa", laddove con il secondo sintagma si intende la concezione andersiana di un'umanità inadeguata al mondo. Che poi non si tratti di una stranezza ma di un interrogativo legittimo lo conferma, indirettamente, lo stesso Adorno, che in una nota contenuta nella sezione della "Dialettica negativa" dedicata alla lettura del pensiero di Heidegger, chiama in causa proprio la lezione di Anders.
Quando, nel 1979, dopo quasi un quarto di secolo di silenzio, Günther Anders decide di raccogliere nel seeondo volume di "Die Antiquiertheit des Menschen", alcuni tra i suoi scritti più significativi, si accorge che la sua intera produzione filosofica non è stata altro che una continua variazione su uno stesso tema. La questione teorica che da sempre ha impegnato la sua ricerca è il configurarsi del rapporto tra uomo e mondo. Un motivo di evidente attualità antropologica, como lo stesso Anders sottolinea già nell'incipit della sua Introduzione: "Questo secondo volume di 'L'uomo è antiquato' e [...] un'antropologia filosofica nell'èra della tecnocrazia". E tuttavia alla tematica più strettamente antropologica vengono esplicitamente dedicate solo alcune pagine del volume, note densissime alle quali Anders affida la sua esplicita tematizzazione di un'antropologia negativa. In realtà, come lo stesso autore confessa in questa sede, i motivi salienti della "Negative Anthropologie" affondano le radici in un terreno fertile e battuto già cinquanta anni addietro, ovvero nella sua concezione giovanile di un'"antropologia filosofica dell'estraniazione".
In un passo tratto dal monologo "Tre giorni" (1971) è rintracciabile un motivo centrale della poetica di Thomas Bernhard: la necessità esistenziale di muovere contra un'opera che si offre come totale e assoluta [...]. Il confronto spietato con l'arte accreditata: è questo il fulcro tematico di "Antichi maestri. Una commedia" (1985), uno tra gli ultimi e anche tra i piu riusciti romanzi di Thomas Bernhard.
Prendendo le mosse dal romanzo "Cemento" (1982) tenterò di delineare una costellazione di motivi che fanno dell'opera e della riflessione estetica di Thomas Bernhard un referente esemplare rispetto ad alcune questioni di evidente risonanza filosofica: il rapporto tra parola e silenzio, tra opera e fallimento, tra nonsenso e senso. È proprio il dualismo perenne tra questi due poli a restituire le coordinate entro le quali deve essere collocato, nel pensiero narrativo bernhardiano, il tema centrale e ricorrente del compito, che deve essere eseguito ma che di fatto si rivela ineseguibile.